testo dell'intervento del prof. P. Gherri ad introduzione della giornata - per la versione integrale consultare la versione a stampa


Norme e regole nella vita e nel Diritto

1. LA QUESTIONE DI BASE
1.1 Il contesto
Accostando in modo critico la Teoria generale del Diritto canonico, ci si rende conto del problematico delinearsi della tematica, spesso solo latente, circa la qualificazione ontologica del Diritto (canonico) stesso e, di conseguenza, la portata della sua vincolatività.
Il problema riguarda la 'natura' più profonda del Diritto (canonico), percepito da alcuni come 'norma', con tanto di implicita ed espressa 'doverosità' etico-morale-dogmatica, oppure da altri come -semplice- 'regola' di natura 'funzionale' ed operativa: un 'dover-fare' del tutto 'categoriale'.
Tale bipolarità tra i termini/concetti di 'norma' e 'regola', se appare oggi un po' forzata e solo parzialmente apprezzabile sotto il profilo tecnico, non va tuttavia sottovalutata nel linguaggio comune, soprattutto ecclesiastico e nelle sue concettualizzazioni di origine essenzialmente morale, in riferimento soprattutto all'idea di 'dovere'.
È questa, infatti, la vera chiave ermeneutica della visione comportamentale ecclesiastica che ha caratterizzato la Canonistica di inizio Novecento secondo il presupposto che "omnis lex est præceptum".
In tal senso un famoso manuale tedesco di Filosofia morale affermava nel 1911 che "l'idea del dovere è necessariamente connessa con l'idea di legge, essendo quello un effetto di questa". In tale prospettiva:
"legge, nel senso più proprio e più stretto (legge morale), si dice solamente quella norma dell'atto libero, che obbliga l'uomo. Essa non solo gli mostra come può e deve regolare la sua condotta [...] ma si avvicina a lui con una pretesa assoluta, e gli dice: tu devi!
Le leggi vere e proprie si dicono leggi morali in senso stretto, in quanto impongono alla volontà esigenze incondizionate. [...] suppone ed esprime la volontà di obbligare. Da tale volontà il giudizio pratico riceve tutta la sua forza obbligante. Quindi la legge si concepisce, in generale, come espressione della volontà del legislatore, da cui dipende pure l'obbligazione".

Una problematica di questo tipo, però, presenta una specifica importanza anche dal punto di vista concreto e pratico a riguardo della possibilità/necessità di prendere sul serio il dettato testuale delle prescrizioni canoniche: che 'valore' hanno, in concreto, le diverse prescrizioni con cui la Chiesa struttura e guida se stessa ed il proprio funzionamento istituzionale?
In altre parole: la prescrizione canonica, al di là della sua denominazione tecnica, va ritenuta ed applicata in quanto 'norma' e quindi per imperatività 'interna' (dogmatica o trascendentale) oppure in quanto 'regola' e perciò per funzionalità tutto sommato 'estrinseca'?
Il Diritto canonico, soprattutto codiciale, si trova così posto alle strette tra due poli: da una parte un ontologismo 'gius-divinistico'3 ieratico e sacrale oppure un -equifunzionale- normativismo autoritario e volontarista per i quali -semplicisticamente- la "norma è la norma" e deve essere obbedita (Ius quia iussum); dall'altra parte, un atteggiamento destrutturante, convenzionalista e relativista, che renderebbe del tutto inutile qualunque genere di organizzazione a-priori del vissuto ecclesiale, in forza di una visione a-nomica che lasci tutto all'immediatezza delle circostanze di cose e, soprattutto, di persone, in ragione della carità, della Communio o del Carisma... uniche 'vere' norme per la Chiesa.
La ricaduta dell'una o dell'altra opzione sul metodo della Canonistica è di tutta evidenza, così come la derivante concezione della 'natura' stessa del Diritto canonico... della sua fisionomia e teorizzazione.

1.2 La domanda di fondo
Diventa importante, allora, chiedersi dove si fondi il 'dovere' della osservanza delle prescrizioni giuridiche canoniche. Se, infatti, si esclude la prospettiva normativista/postivista -e moralistica- come, e soprattutto perché, dare il giusto valore ed osservare con scrupolo le prescrizioni giuridiche, se non s'impongono al soggetto né per il fatto del loro 'esserci' -ed essere 'così'-, né per l'autorità di chi le ha poste?

In questa prospettiva il riconoscere la vera natura ontologica del Diritto quale 'regola' comportamentale -è questa la nostra ipotesi di ricerca e tesi da dimostrare- potrebbe risolvere in modo efficace il dilemma proposto: la prescrizione giuridica, che nasce dalla complessità del vissuto umano, è regola necessaria e sufficiente perché questo stesso vissuto possa non soccombere alle proprie incoerenze e debolezze, spesso prettamente strutturali o funzionali.
In questo modo non sarebbe più necessaria una 'autorità' -divina o umana- per giustificare metafisicamente le prescrizioni ed il dovere della loro osservanza, né si potrebbe tuttavia supporre l'insignificanza intrinseca delle loro formulazioni testuali, accusando di 'Positivismo' o 'Normativismo' coloro che studiano ed applicano il Diritto partendo dal testo della norma scritta.

2. PREDITTIVITÀ ED ASPETTATIVE
Posto in questi termini il problema di base, diventa assolutamente necessario affrontarlo in modo tale da prescindere quanto più possibile dalle categorie di doverosità ed obbligo, per non cadere in vuote tautologie che non risolverebbero alcuno dei problemi evidenziati.
Il primo elemento costitutivo da porre in risalto sotto il profilo fenomenologico nell'accostare 'norma', 'regola', 'legge' e Diritto è la constatazione che tutti questi termini/concetti riguardano cose non-presenti al momento, ma 'appartenenti' al futuro ...al campo, cioè, dell'ipotetico e del predittivo ed a questo campo rivolgono la loro 'attenzione'. Norme, regole, leggi e Diritto si muovono nel campo della predittività; la loro funzione principale ed utilità effettiva è 'anticipare' a livello cognitivo quanto sta per accadere a livello 'operativo' o fenomenico.
Ciò che accomuna queste diverse forme 'predittive' è proprio il loro generare 'attesa' nei confronti del futuro: non tuttavia un'attesa qualunque, ma la specifica attesa che si realizzi o si compia ciò che è stato 'previsto', in ragione di una serie di pre-supposti già noti e, soprattutto, stabili.
Questo però non basta, poiché i livelli di attendibilità sono ben differenti a seconda degli ambiti di riferimento: diversa è l'attendibilità di un evento previsto per legge fisica, o per via statistica, o morale, o giuridica.
Di conseguenza il problema non solo dell'attendibilità ma anche della essenza/identità delle diverse forme 'predittive' si sposta al livello dei 'fondamenti' della predizione stessa e delle connessioni con la realtà su cui essa si basa. Proprio circa la realtà di riferimento occorre, però, distinguere due differenti ambiti: quello fisico e quello umano.
[a] La predittività della legge fisica, infatti, si basa sulle cause fisiche che difficilmente conoscono eccezioni o errori; quella statistica si basa invece sull'osservazione e correlazione di dati rilevati nella realtà, senza però connessioni necessitanti e quindi solo 'probabili'.
[b] Per quanto concerne, invece, il mondo 'umano' e delle sue azioni, bisogna considerare come sia la Legge morale che giuridica prima di 'operare' debbano relazionarsi con l'operare umano, un operare volitivo, che non dà certezza alcuna neppure del proprio 'realizzarsi', poiché una persona può anche scegliere di non-agire. Non si tratta più di realtà 'future' ma di 'futuribili'4.
L'ambito dell'agire umano si presenta poi ulteriormente articolato in termini di 'qualità' della predizione/aspettativa propria delle norme morali rispetto, questa volta, a quelle giuridiche; fonte di tale differenza è il loro fondamento: la norma morale, infatti, è costituita da una deduzione formale a partire dal principio morale generale (il Valore)5; alla norma morale deve poi esser ricondotta -attraverso il sillogismo deontico- la concreta azione morale, adattata a circostanze e soggetti concreti.
Questo non accade di per sé per le 'regole', che derivano invece -operativamente- dall'esperienza: così è anche del Diritto.
Sotto il profilo fenomenologico, pertanto, è più corretto parlare di expectatio che di obligatio.

3. IL PRESUPPOSTO
Quest'aspettativa verso ciò che 'dovrebbe' accadere/realizzarsi non è, però, né velleitaria né arbitraria o immotivata, si basa infatti su di un presupposto che accomuna radicalmente tutte le diverse forme di 'aspettativa': tale presupposto è l'ordine sotteso alla realtà stessa; quella sorta di ratio o di logos che pare in qualche modo dare struttura e funzionalità -e quindi consistenza e stabilità- a quanto esiste. Detto in altri termini: alla base di qualunque idea di regola/norma/legge/Diritto si pone sempre il concetto fondante ed originario di 'ordo', che motiva e contemporaneamente supera ciascuno degli altri e ne costituisce, spesso inavvertitamente, il vero princeps analogatum. È l'ordo la vera idea fontale, il typos cui s'ispirano e si rifanno i concetti presi in esame.
L'idea è suggestiva poiché già di primo acchito l'ordo si oppone al 'caso', come anche la legge si oppone all'anarchia, la ratio al caos.
Ma ciò è ancora troppo semplice e -al contempo- già troppo strutturato, poiché tra ordo, lex, ratio non c'è -in realtà- immediatezza concettuale né contiguità ontologica.

4. IL PRESUPPOSTO GNOSEOLOGICO
Una fondata riflessione sui concetti di norma, regola, legge e Diritto approcciati in prospettiva di 'predittività', 'attendibilità' ed 'ordine', evidenzia senza dubbi anche una forte portata a livello cognitivo, poiché senza un ordo sottostante alla realtà stessa non sarebbe possibile neppure una sua vera conoscenza.

Senza quest'ordo oggettivamente dato ed oggettivamente recepibile (ratio), ogni 'percezione' sarebbe in realtà sola 'sensazione', soggettiva e relativa. Non a caso il travisamento rinascimentale che trasformerà l'ordo in præceptum e la ratio in voluntas aprirà le porte al soggettivismo relativista della Filosofia moderna da cui prenderanno origine quell'Idealismo e Positivismo che tanto risulteranno deleteri alla stessa concettualizzazione del Diritto...

5. PRECETTIVITÀ E FALLACIA NATURALISTICA
Il problema gnoseologico, però, porta immediatamente a dover affrontare una delle maggiori croci della Filosofia e Teoria generale del Diritto, approdate al secolo scorso: quale legame intercorre tra cognitività e comportamentalità? Tra essere e dover-essere?
Si tratta della questione critica già posta da David Hume (1711-1776) e conosciuta col nome di 'fallacia naturalistica' a causa della sua pretesa di derivare norme comportamentali (etiche, morali e giuridiche) dalla semplice osservazione della 'natura'. Secondo questa prospettiva infatti: "da una serie di proposizioni tutte assertive non può essere inferito alcun precetto".

Il problema, in realtà, risulta mal posto poiché a non essere logicamente congrua non è la consecutio tra essere e dover-essere -secondo la contestazione di Hume- in realtà pienamente fondata attraverso il concetto di ordo, ma la identificazione tra un dover-essere ed un modus faciendi; il dover-essere, infatti, ha una chiara struttura e portata metafisica connessa all'ordo, costituendo il campo proprio dell'Etica, mentre il modus faciendi non esce dalla pura operatività categoriale; è a questo livello, invece, che si pone il Diritto!
Chiave di volta della problematica concettuale che emerge dai sostenitori della fallacia naturalistica rimane la fondamentale indistinzione tra i diversi tipi di predittività/attendibilità e la 'doverosità': problema sommo tanto per Hume che per Kant (1724-1804) ed il suo imperativo categorico.

Questa prospettiva permetterebbe così di ricuperare la discontinuità suareziana tra ratio e voluntas, ordo ed auctoritas ed il Diritto potrebbe 'derivare' semplicemente dallo 'stato' delle cose, senza l'intervento di alcuna autorità, palesandosi come 'regola' operativa, funzionale ed organica, adeguata alla realtà concreta, senza soffrire affatto dell'incongruità della c.d. fallacia naturalistica, né della problematiche del Normativismo.

6. REGOLA, OPERATIVITÀ E SIGNIFICATO
6.1 Regola e norma
Ciò che la precettività volontaristica 'moderna' non ha saputo distinguere, appare invece -in questa prospettiva- di tutta linearità: 'norme' e 'regole' si pongono su differenti 'livelli' ontologici e, conseguentemente, operativi ...come l'analisi 'funzionale' dell'agire umano illustra adeguatamente.
La 'norma' deriva per logica formale (sillogismo formale-modale) dal Valore di cui costituisce una espressione 'precisiva': la 'norma' è così un 'caso' del Valore, esprimendo in tal modo un faciendum cogente e precettivo. La 'norma' tuttavia per essere concretamente attuata nell'agire umano (specifico e concreto) deve calarsi nella realtà attraverso un procedimento -ancora logico, ma questa volta- deontico (sillogismo deontico) che trae la propria 'conclusione' correlando la 'norma' (che costituisce la 'premessa maggiore') con la circostanza concreta ('premessa minore'), interrompendo in tal modo -senza introdurre alcuna 'fallacia naturalistica'- la 'continuità imperativa' da cui era scaturita la 'norma' stessa ed aprendosi ad una serie di azioni possibili e del tutto ipotetiche che 'applichino' la 'norma' alla circostanza in atto. Quando il soggetto 'personale' abbia scelto che cosa fare (il factibilium) tra i diversi factibilia possibili, si entra nel campo 'funzionale' delle 'regole' (il 'fare'): in base al risultato che s'intende conseguire -secondo la norma- si sceglie quale 'regola' applicare per ottenerlo in modo ragionevolmente certo. Questo però è il campo proprio del Diritto!
Il vero problema, trascurato originariamente da Suarez (e di seguito da Hume, Kant, ecc.), è la discontinuità logica che occorre riconoscere al passaggio dalla 'norma' alla 'regola': il salto ontologico tra faciendum, factibilium e factum che non sono mai sullo stesso piano in rapporto all'essere, come ben specificò, nella prima Giornata Canonistica Interdisciplinare (2006), il prof. Livi.

6.2 Regole e significati
Il confronto ad ampio respiro tra 'norma', 'regola', 'legge' e Diritto che guida queste riflessioni porta a considerare come la 'regola' infatti rivesta -per propria 'natura'- una doppia valenza: tecnica e comportamentale, che ne caratterizza la portata e la funzionalità in relazione diretta alla sua strutturale componente sanzionatoria. È, infatti, la strutturalità della 'sanzione' a costituire il 'punto forte' della 'regola': una 'regola' produce sempre un risultato diretto ed immediato sulla realtà, facilmente recepibile dai soggetti interessati. L'osservanza della 'regola' è sanzionata dall'efficacia di conseguimento di quanto previsto. Se ciò risulta di tutta evidenza per le 'regole' tecniche, la questione diventa ben più complessa per le 'regole' comportamentali.

6.3 Regole e sistemi
La regola, inoltre, proprio in quanto 'significante' ha la possibilità tutta specifica di 'creare' tra gli uomini nuove realtà di significato, proprio come 'sistemi di regole': è forse questa la maggior proprietà del Diritto... invidiata da molte altre espressioni antropologiche ma difficilmente eguagliata. A questa attitudine si deve ricondurre probabilmente la præstantia Iuris che ha spinto parecchi, lungo i secoli, a rifarsi proprio al Diritto come 'typos' per molte altre espressioni del vivere umano.
Questo accade perché il linguaggio e l'agire giuridico sono 'performativi': danno, cioè, consistenza reale a quanto esprimono; ciò che essi 'significano' viene concretamente espresso e come tale recepito dando corpo alla realtà stessa.
Due esempi risultano espressivi in merito: lo sport ed il Diritto internazionale, come 'sistemi di regole'.

6.4 Leggi moderne e Diritto
La logica e natura prettamente regolamentare delle Leggi giuridiche moderne è del tutto evidente ormai da secoli, attraverso la distinzione tra 'Legislatore formale' e 'Legislatore materiale' nella piena consapevolezza che chi promulga le Leggi non è chi le fa.
Il cammino codificatorio della Chiesa cattolica non ha smentito questo principio fattuale.

7. IL PROBLEMA LINGUISTICO E L'ANALOGIA
Tra gli elementi decisivi della tematica che stiamo trattando, si pone come primario quello linguistico che rischia di creare spesso pericolosi sottintesi e semplificazioni logiche, soprattutto attraverso un ricorso acritico all'analogia.
Si tratta, infatti, di riconoscere come l'ambito comportamentale umano si sia ottimamente prestato ad un approccio analogico alle diverse forme 'predittive' finendo ben presto per perdere di vista cosa sia effettivamente 'analogabile'.
La struttura fondamentalmente analogica della conoscenza umana ha senza dubbio favorito l'assimilazione pre-concettuale dei termini e delle categorie di 'norma', 'regola', 'legge' e Diritto sulla base dell'elemento individuato come 'portante': la predittività... l'expectatio de futuro.
Stabilità e regolarità -della realtà e dei comportamenti umani- si sono ben presto confuse con l'imperatività che, analogamente, permetteva di 'prevedere' le azioni umane, formando un unico 'grembo' in cui ordo, ratio, præceptum, lex, imperium finivano per confondersi o -comunque- coimplicarsi indifferenziandosi.

In questa prospettiva è fondamentale considerare anche come nel mondo antico e medioevale l'assenza della Scienza moderna e della connessa Tecnologia non lasciassero all'uomo altro paradigma concettuale praticabile per 'gestire' l'ordo che quello giuridico. L'efficacia dell'analogia e la pregnanza concettuale sottesa hanno finito per consacrare l'uso di "lex" al posto di "ordo", "norma" al posto di "regula", togliendo alle immagini utilizzate il significato e la verità iniziale e riducendo irrimediabilmente la prospettiva linguistico-concettuale attraverso l'inserimento di un elemento -quello volitivo- originariamente estraneo ad una concettualizzazione che potremmo appropriatamente definire 'ordinamentale'.

8. IL PROBLEMA DELL'AUCTORITAS
8.1 Auctoritas e volontà
Lo snodo portante della concezione 'volontarista' del Diritto accolta dal Rinascimento e trionfata nel XX secolo è costituito senza dubbi dal concetto di autorità7: è questa infatti che genera il præceptum su cui si basano poi norme e Diritto; è l'auctoritas che pone Dio -o la divinità (illuministica)- nella caratteristica posizione di forza e primizia da cui promana l'irresistibile imperatività della sua volontà espressa nel Diritto divino. Lo schema logico che regge tale concezione è assolutamente elementare: dalla voluntas (absoluta) della suprema auctoritas -Dio- deriva il præceptum e da questo la norma (che vincola sub culpa), la cui massima espressione è lo Ius (che vincola anche sub pĪna)... com'è chiaramente rinvenibile nei trattati di Morale o Diritto degli inizi del Novecento, da cui dipendono ancora molte nostre concettualizzazioni.

Il presupposto inconfessato ed im-percepito di questa visione, che durerà incondizionato fino a Kelsen ed oltre, è la 'personalizzazione' dell'autorità: a partire dal Rinascimento, infatti, l'autorità è una 'persona' e non più una 'funzione' di perfezionamento negoziale/sociale come nell'antichità!
È per questa via che si giunge al postulato kelseniano "kein Imperativ ohne ein Imperator" da cui deriva il primo 'teorema' del Normativismo positivista "non veritas sed auctoritas facit legem".

Quanto la deriva 'ipostatica' dell'auctoritas abbia concretamente condizionato non solo il linguaggio ma anche le ordinarie categorie concettuali, fin'anche quelle 'tecniche' del mondo giuridico, è palesato dal comune linguaggio utilizzato anche in ambito canonico; il CIC 83, infatti, usa il termine auctoritas oltre duecento volte proprio nell'accezione 'personale' di "superiore", "governante"8. Il fenomeno si ripete, non di meno, negli altri Ordinamenti giuridici contemporanei, oltre che nei linguaggi della Sociologia e della Politica.
Che però l'auctoritas nella forma ipostatizzata di Legislatore formale non sia reale 'fonte' e 'causa' del Diritto è comprovato anche dall'esistenza della Consuetudine quale forma 'normativa' di valore legislativo che ha retto la vita europea per oltre un millennio e continua a farlo tutt'oggi -nonostante i Codici- in specifici ambiti.

Gli stessi Ordinamenti giuridici di Common Law funzionano prescindendo sostanzialmente dagli apporti di una auctoritas ipostatica, riconoscendo valore 'normativo' alle Sentenze delle maggiori Corti giudicanti secondo i principi del 'precedente' giurisprudenziale concepito come semplice "dichiarazione del Diritto" nel caso particolare dell'azione in oggetto: ratio ed ordo, dunque, invece di Lex.

9. IL DIRITTO COME ORDO
Il percorso sin qui articolato permette così di cogliere quale base comune per i concetti di 'norma', 'regola', 'legge' e Diritto gli elementi della predittività, della regolarità/costanza, della stabilità... ponendo decisamente in ombra, invece, volontà, precettività, imperatività che risultano a tutti gli effetti come elementi spuri, indotti tardivamente da una cattiva concezione della lex.

Come di tutta evidenza, il nesso ontologico o fondativo tra Diritto ed autorità (nella prospettiva rinascimentale divenuta poi kelseniana) risulta del tutto indimostrato ed indimostrabile.
Di fatto anche i termini utilizzati nelle lingue neo-latine e sassoni: diritto, recht, right, derecho, droit, rimandano al rectum e pertanto all'ordo, alla ratio (alla veritas) e sono assolutamente coerenti con la linea proposta da S. Tommaso con la sua ordinatio rationis.
Da tutto ciò è possibile indurre come il vero problema per buona parte dei canonisti risulti essere l'assunzione acritica -ma radicale e radicata- del concetto positivista-autoritativo moderno di Legge e, quindi, di Diritto quale modello tipologico per ogni successiva concettualizzazione: il Diritto come precetto imposto dalla (persona dell') autorità.
Gli apporti logico, epistemologico, sociologico, morale, liturgico e giuridico internazionalistico di questa giornata permetteranno durante i lavori di mettere meglio a fuoco la peculiare portata di quanto sin qui suggerito solo in modo argomentatamente dubitativo.


10. IUS NATURALE E IUS DIVINO
Un percorso che giunga a sostenere la natura 'regolamentare' anziché 'normativa' del Diritto non può evitare il pronto sospetto di scardinare concetti irrinunciabili quali quello di Ius naturale e Ius divinum.

A ben vedere, invece, è proprio il ridimensionamento anti-autoritativo degli Iura naturale et divinum la vera possibilità contemporanea di ricuperarne l'assoluta 'organicità' e 'strutturalità' per la concezione del reale, secondo principi di 'ragione' e non di fede soltanto9. Ciò che, infatti, costituisce la maggior debolezza -e la sostanziale inaccettabilità odierna- di questi due concetti è proprio la loro completa 'estraneità' rispetto al reale; se, infatti, lo Ius è una quæstio imperii, la sua estrinsecità rispetto al reale risulta ontologica.
Per contro, la 'verità' delle cose, la loro struttura ontologica, appartiene alla loro stessa ratio.

11. IL DIRITTO TRA VOLONTÀ E VERITÀ
In una concezione, dunque, che ponga al centro dell'agire umano la verità sarà proprio l'ordo la corretta prospettiva ermeneutica e fondativa da attribuire al Diritto, senza pensare poi di poter o dover contrapporre verità e giustizia. Nella prospettiva dell'ordo, infatti, la voluntas -e la conseguente fides- non risulta più decisiva, basta il logos -e la conseguente ratio- per inquadrare ogni elemento attribuendogli il giusto valore, anche operativo e comportamentale. In questo modo cade definitivamente il principio di Hume (la fallacia naturalistica) poiché proprio dalla stessa realtà delle cose deriva la loro vincolatività -dimensione etica- e non, invece, dalla volontà di qualcuno, fosse pure Dio stesso che, in qualche modo, le 'accresce' dall'esterno in modo precettivo (come l'Imperator di Kelsen).
La 'regola' si porrebbe allora quale istanza intermedia -razionale ed ordinatoria- tra l'ordo realis e l'ordo agendi, permettendone l'efficace giunzione contenutistica ed interpretativa.

12. CONCLUSIONE
L'esito che si potrà raggiungere mettendo a fuoco con maggior precisione il significato e la portata di termini che, come 'norma', 'regola', 'legge', popolano ed 'esprimono' ordinariamente l'ambito giuridico, ma che -in realtà- non trovano in esso la propria unica referenzialità concettuale, appare di tutto interesse per una più adeguata comprensione e gestione della realtà stessa del vivere giuridico ecclesiale.

* Sarà così possibile parlare di vero 'Diritto' nella Chiesa e della Chiesa;
* sarà possibile 'valutare' la rispondenza a verità delle situazioni previste dal Legislatore e delle condizioni di vita dei singoli Christifideles a cui le stesse vanno applicate;
* sarà possibile dispensare da una disposizione canonica senza contraddire il Valore che ne sta alla base né contrapponendogli un qualche presunto 'diritto fondamentale';
* sarà possibile anche applicare con rigore le singole disposizioni giuridiche senza cadere nel vuoto formalismo che fa del solo precetto l'unico elemento d'interpretazione della realtà.